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ANCORA SPROLOQUIO
Caro Maurizio Costanzo Show,
in principio era il caos, così almeno si dice o si è detto e forse si dirà sempre di più. E allora, che il caos sia!
Rumori di fondo. Balbettii inintelligibili. Fruscio. Attributi del caos, ma non ancora caos. Fisica indeterministica, quanti di qua e di là, quanti quanti si lasceranno quantizzare e quando? Qual'è il filo che lega i fili, la metafora che dissolve le metafore?
Che in principio ci fosse il Verbo lo sanno anche i bambini. Ma prima del verbo c'era la spirale, magica forma da cui tutto si genera. L'argomento sorge di per sé da un caos poco stabile, che già si dissolve nell'autocostruzione di una parvenza di significato condivisibile. La spirale. La spirale. La spirale è la forma della nostra galassia. La spirale è la forma di una conchiglia. La spirale sorge in ogni televisore di per sé quando puntiamo una telecamera accesa verso lo schermo che ne trasmette l'immagine prodotta. Sorge così, dal nulla, spontanea, perfetta nella sua autoprodotta geometria, dinamica nella sua parvente rotazione armonica. Nessuno l'ha creata. Essa sorge da ciò che chiamiamo un effetto di retroazione tra la telecamera ed il monitor. Ma il fatto che noi la si chiami così per nulla la spiega. La spirale è una forma geometrica importantissima che mai ci insegnano a scuola, dove ci drogano la mente con le futili coordinate dei quadrati, dei triangoli e delle loro stupide ipotenuse. Mai un cenno però alla spirale, forma geometrica complessa ed ineffabile, origine di tutto quanto di complesso conosciamo, noi compresi. Eh, sì, il nostro DNA, quella superba molecola che contiene il nostro codice genetico, cioè il progetto di costruzione di ogni minima parte di noi stessi, ha una forma elicoidale, più simile ad una spirale che ad un quadrato pur irto d'ipotenuse.
Ma perché intestardirci sulla spirale? D'accordo che quasi nessuno s'è tormentato più di tanto sui misteri di questa forma così importante, ma ora che l'abbiamo menzionata mutiamo il verso del nostro sguardo.
Ecco di nuovo qualche cenno di caos, culla di ogni favilla di autentica novità. Forziamo il caos ad accoppiarsi su di sé, abbandoniamo i significati, significhiamo gli abbandoni e abbindoliamo allocchi. Gioviamo a ciò che di gioviale già siamo senza sapere di essere, cingiamo il nonsenso con il lappato polpastrello di un dito sconnesso da quel cervello che da autentico despota ci istiga a fornirgli brani di significanza conclamata.
Inerpichiamoci su per la metafora che con l'inerpicarsi suggerisce significati che non svilupperemo oltre, sprofondiamoci nella sua sorella più triste e depressa, maciniamo rane e pane raffermo da fermo, pornoperno di allucinata stabilità metalogica, enucleiamo la parola enucleare senza aggiungere altro.
Ecco perbacco un sacco di sensi densi che pensi un sacco ma ti pare un po' un pacco. Svacco di bocca e di laringe, corde vocali incluse. Le muse son fuse, parole astruse infinocchiano quartieri mentali e paramentali. Scavezza il suo collo dalla cavezza lo scavezzacollo, e chi lo può biasimare? Un Wagner di magmer musicaler. Crêpes Moana & Mandingo, Panna e Nutella, flambé con ghirigori di unto. Cervelli evaporati a iosa e a foia non producono noia, ma a noia conducono. Balzi di mente schiudono visioni di eoni di idee, oppure no, ma intrinsecamente sì condito di no e ornato a forse.
Povero chi significati cerca dove significati latitino, ricco chi significati allucina nel medesimo luogo, oppure povero lo stesso proprio indulgendo a tal gesto, ma con minor arte.
Regge il caos, o forse no, latita per certo il progetto e l'emisfero sinistro dorme nel suo cerebrantro endocranico.
Puttaneggiamento impudente ed impunito, perché prosegui in te stesso? Domanda oziosa, come ozioso è tutto il sublime, sublime eccelso e sublime infimo. L'ozio è il padre di tutte le idee. Se le si abortisce scaturiscono i vizi, aborti d'idee. I vizi, colmi di tutto il potere cangiante delle idee, ma monchi di esse. I vizi non possono essere viziosi. I viziosi invece lo sono.
Odiosi viziosi e viziosi noiosi, entrambi negletti ed imperfetti. Metti che i gatti siano matti, se te ne fotti permetti che colino i sacchi, non so se mi spiego ma so che non mi spiego e lo faccio apposta, perché c'ho la faccia tosta.
Basta. Chi s'impasta apposta con parole poste a casaccio finisce malaccio. Non ce la faccio. Ma mi compiaccio di quanto sono pagliaccio. Caccio il senno fuori di sé e di me, e differenza non c'è. La rima fa rima perché è in rima. Ma non ha la mia stima. Si stima che la rima l'avessimo in zucca prima, prima dell'alba del senno, e ciò lo sappiamo col senno di poi, praticamente adesso. All'alba dell'uomo si viveva in riga e in rima. Vestigia d'entrambe, entità strambe, permangono oggi.
Volgiamo il capo abbandonando la rima o ciò che rima pare al proprio destino d'oblio. Un giorno futuro la rima scomparirà infine dagli umani discorsi e pensieri, per sempre, come scomparve il pelo dalla nostra pelle e scompariranno i denti del giudizio e forse anche gli altri. Un giorno futuro, forse anche lontano, in quello spazio metaforico che secondo noi è il tempo. Succederà quando i significati che si agitano in noi si saranno liberati degli abiti scimmieschi e post-scimmieschi, e vivranno per intero della propria natura metaforica, abbandonando, come il serpente abbandona la sua pelle smessa, l'antica natura formale musical-ritmica.
V'è oscuro quanto io sinora ho espresso? Siatene lieti. E' oscuro anche a me o così fingo che sia nel timore che lo sia davvero malgrado a me paia non esserlo.
Scusate, eh.
Roberto Quaglia
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