Genova (Caro Maurizio Costanzo Show... lettera n.18)
lettera n.18

Il bello di Genova è andarsene.

GIGI PICETTI


















GENOVA

Caro Maurizio Costanzo Show,

parliamo oggi di Genova. Non ne parla mai nessuno, in Italia, ed è un peccato, perché ci sarebbero a riguardo moltissime cose di sublime cattiveria da dire. Genova è una grande città, più di Venezia, Firenze e Bologna. Patisce però di una cronica emarginazione dal proscenio dell'attenzione nazionale, emarginazione di cui sono rei i genovesi stessi. I genovesi sono infatti dei veri e propri prìncipi dell'emarginazione, ma non della solita e tipica emarginazione dei più poveri e derelitti, così diffusa in tutta Italia e in tutto il mondo. Genova è maestra ad emarginare i propri cittadini più vivi. Ma non per cattiveria. Infatti, più che in ciò di cui s'è appena detto, Genova è perfetta nell'assurdo gesto di emarginare addirittura sé dal mondo. Fin dalle sue origini separata dal resto della società dal mare e dai monti, Genova se n'è separata anche a livello mentale (e come avrebbe potuto essere altrimenti?). Adagiata come pochissime altre metropoli sulle colline affacciate sul mare, offrendo così di sé uno spettacolo unico che non viene mai a noia, situata in mezzo ad una delle più belle riviere del mondo, Genova è miracolosamente riuscita ad evitare il 100% dei milioni di turisti di tutto il mondo che incessantemente si muovono lasciando dietro di sé una scia di denaro e di benessere. La locazione geografica di Genova è uno dono che poche altre città nel mondo potrebbero vantare. Il clima d'inverno è tra i più miti d'Italia e d'estate il più ventilato. Senza in passato far nulla di clamorosamente sbagliato o appena qualcosetta di giusto, Genova potrebbe ora essere la Miami d'Europa. Immaginate, immaginate una spiaggia che vada da Vesima a Nervi, interrotta soltanto dal più grande porto turistico del mondo, con centinaia e centinaia di alberghi per tutte le tasche stracolmi tutto l'anno di ricchissimi possessori di panfili e di turisti dell'Europa intera! Immaginate il centro storico genovese, il più grande d'Europa, gonfio di turisti beati, intasato di gente desiderosa di spendere! Immaginate la città d'agosto, brulicante di umani gaudenti e spendaccioni non meno che a Rimini! Niente fabbriche di Cornigliano in passivo di soldi e produttrici solo di cancro! Al posto loro: un luna park permanente affacciato sul mare, ad un passo dalla spiaggia!
Ad agosto a Genova non si trova un negozio aperto che sia uno.
A Ferragosto la città è morta, o in animazione sospesa. Così silenziosa da suggerire che una bomba al neutrone l'abbia sterilizzata dalla sua popolazione. Tutti i genovesi sono a spendere altrove, quando sarebbe stato così facile fare sì che fossero gli altri, i non-genovesi, a passare l'Agosto a Genova a spendere i propri risparmi.
Di chi è la colpa?
Accade anche spesso che un individuo non sia il colpevole del proprio destino. Non accade la stessa cosa ai popoli. I popoli sono responsabili del proprio destino. I genovesi sono colpevoli di essersi sputtanati l'eredità ambientale che avevano a disposizione, lasciando che divenisse covo di marciume il centro storico che avrebbe appassionato turisti di tutto il mondo, lasciando le proprie spiagge alla mercé dell'insediamento di fabbriche improduttive di soldi e produttrici di cancro, emarginando sistematicamente chiunque facesse qualsiasi cosa di coscienzioso, ed infine, perseverando tuttora nella propria cieca ed autolesionista follia.
Si vive male a Genova, oggi più di ieri e meno di domani, ogni angolo buio è sito prediletto delle migliaia se non decine di migliaia di giovani genovesi tossicomani.
Ove ancora ve ne sia, l'intelligenza soffre, a Genova, alla vista di tale collettiva cecità strategica, nella comprensione delle orrende tare mentali che hanno condotto Genova ad una tale rovina in luogo della radiosa prosperità che le sue eccezionali risorse le avrebbero reso facilmente realizzabile.
E' per questo che da Genova fugge e deve fuggire chiunque nell'archetipo del genovese non si riconosca e non si voglia rassegnare a riconoscersi.
Sono fuggiti in tanti. Gli artisti, tutti. Oppure hanno smesso di fare gli artisti. A Genova non sopravvive a lungo un cantautore, un comico (per citare le categorie di artisti che "vanno per la maggiore"). Ma neanche uno scrittore, un pittore, un regista teatrale, un attore. Se a Parigi o a Venezia un giovane suona per strada per guadagnarsi qualche soldo è un artista in erba. Se lo fa a Genova è un accattone. Per quale motivo cantautori e comici genovesi sono mediamente i migliori d'Italia? Perché sino a quando non hanno abbandonato Genova hanno macerato nell'indifferenza generale, costretti dal proprio dolore di non essere assolutamente considerati a migliorarsi e a migliorarsi e a migliorarsi, eternamente invano, sino a quando, abbandonata finalmente questa cieca piazza, hanno potuto misurarsi con chi, nel resto d'Italia, aveva parallelamente fatto cose analoghe alle loro, ma con meno delusioni, meno frustrazioni e quindi, minor crescita artistica.
Quanto ho appena detto è ovviamente opinabile, ma chi lo voglia opinare mi dovrà spiegare, allora, a cosa sia ad esempio dovuta la cosiddetta "scuola genovese" dei cantautori. Posso garantire che non esiste nessuna scuola del genere. L'unica scuola di Genova, che costringe l'artista o il pensatore alla rinuncia od al miglioramento, è l'Indifferenza. L'Indifferenza dettata non dallo snobismo, bensì dall'Ottusità. Essa distrugge una mente originale oppure la tempra.
Girando per il mondo ed incontrando, come spesso accade, un italiano, ti accorgi subito se è un genovese. Lo emana dagli occhi. Oppure, lo capisci da ciò che dagli occhi non emana. I genovesi che ancora sono dentro vivi, quando si aggirano fuori dai confini della segregazione genovese emettono inequivocabili lampi dagli occhi, bagliori s'irrefrenabile entusiasmo a scoprire che non tutto al mondo è ancora morto. O invece, se a deambulare all'estero sono i genovesi più tipici, un opaco velo di nebbia satura il loro sguardo spento per sempre, che se non stai attento rapidamente ti reinfetta con l'umore che a Genova ad ogni modo non puoi evitare di avere.
Il genovese è chiuso, come chiusa è sempre stata, geograficamente, la sua città. Questa chiusura, questa avarizia mentale, in passato, si rese certamente utile alla sopravvivenza. Oggi, che i confini geografici non sono più ostacolo di comunicazione, chiudersi al mondo non è più strategia di sopravvivenza, ma di autoemarginazione e di estinzione. Genova sta agonizzando, o forse è già morta, non so, ma non me ne abbiate. (a metafora espressa non si guarda in bocca)

Roberto Quaglia


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